Cos’è coppie in cammino?

«C’era una volta una coppia…». Potrebbe cominciare così la descrizione dell’incontro tra due discepoli di Giovanni Battista e il nuovo maestro della Galilea, un tale Gesù di Nazareth (cfr Gv 1,35-39). I due (uno si chiamava Andrea e aveva un fratello di nome Simon Pietro; dell’altro non sappiamo il nome e quindi nemmeno se fosse uomo o donna), su indicazione entusiasta del Battista domandano al nuovo rabbì: «Dove abiti?». E Gesù risponde, con un invito diretto e spiazzante: «Venite e vedrete». In poche rapide battute ci viene detto che essi lo seguono, vedono dove abita e restano con lui fino alla sera. Cosa si sono detti, come si sono guardati, cosa hanno fatto insieme resta avvolto dalla intimità, ma la cosa li ha segnati così tanto che si ricordano l’ora di quell’incontro: «le quattro del pomeriggio». Un colpo di fulmine! Se fossimo al giorno d’oggi, diremmo che hanno guardato l’orologio e poi si sono fissati sullo smartphone il numero di cellulare e l’indirizzo di quel tipo che li ha affascinati! E magari hanno postato il luogo su Facebook o Instagram! Tant’è che il fratello Simon Pietro viene contagiato da questa notizia, e poi Filippo, Natanaele… Siamo all’inizio di una storia di vita condivisa (con-vivenza) con Gesù durata circa tre anni.

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Non stiamo a raccontarla tutta. Ci lasciamo trasportare alla “fine” di quella vicenda terrena e all’inizio di una nuova storia (cfr Lc 24,13-35).
Un’altra coppia; anche in questo caso sappiamo solo il nome di uno dei due, Cleopa. Tristi e delusi perché la storia di quel profeta Gesù – a cui avevano legato tante attese – si è conclusa male e le loro speranze sono sfumate.
Mentre camminano, si distende un dialogo intenso, in cui viene rivisto il senso della loro vicenda… e non manca qualche salutare rimprovero.
Rimangono vicini lungo una strada di dieci chilometri, più di due ore di cammino di un tardo pomeriggio primaverile: c’è il tempo di ascoltarsi, appassionarsi, domandare, infervorarsi, imbronciarsi, fare silenzio, affaticarsi… e ci scappa un invito a cena, in una locanda o nella propria casa (considerato che erano praticamente arrivati a destinazione, a Emmaus). La casa e la tavola sembrano i luoghi ideali per svelare con calma la propria identità… ma anche stavolta non c’è tempo di restare chiusi tra quattro mura: tornano subito dagli amici e raccontano chi hanno incontrato in coppia, lungo la strada e attorno alla tavola.

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DOVE ABITI?
Domanda ben più impegnativa del semplice: “Come ti chiami?”. Suggerisce l’interesse per le dimensioni più stabili e quotidiane della persona. Una abitazione (che si tratti di quella dei genitori, di un monolocale da soli, di un appartamento condiviso con amici o di una esperienza di convivenza) è più di un semplice e anonimo luogo in cui stare; assume le connotazioni di “casa” se raccoglie le parole, i tempi, gli odori della vita degli affetti e dei giorni feriali.


Senza nessuna morbosità o invadenza, ci interessa questa dimensione della vita di coppia, quella che raggiunge l’identità delle persone, la descrive, la comunica.

Anche per questo, al di là del sito, ci piace accogliere nelle nostre case e farci accogliere nelle case di altre coppie.

MI DAI LA MANO?
Sembra una domanda che sa di romanticismo di altri tempi: qualcuno potrebbe pensare che oggigiorno non si domandi più una cosa del genere e si passi rapidamente ad altri “tocchi” (magari senza nemmeno chiedere, perché li si dà per scontati…). Sappiamo anche che tanta educazione affettiva delle generazioni passate non permetteva all’intimità tra fidanzati di andare molto oltre il darsi la mano.

Ci piacerebbe recuperare in modo sano ed equilibrato la dolcezza del domandare, la cura delle carezze, i significati del corpo e la bellezza del reciproco cercarsi.

E per gustare la differenza tra uomo e donna nella corporeità e nei suoi linguaggi, ci incamminiamo lungo le vie dell’incontro, anche dandosi reciprocamente una mano per capirsi!

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DOVE ANDIAMO STASERA?
Ci si può tenere la mano anche sul divano di casa (o sul divanetto di un pub), ma forse l’esperienza indimenticabile è quella prima volta in cui ci si è tenuti la mano mentre si camminava. Stessa strada, stessa direzione, a pochi centimetri di distanza (magari per non perdersi tra la folla), passo dopo passo, lentamente o in una improvvisa corsa fianco a fianco, alternando la dolcezza dello sfiorarsi delle dita e la stretta forte quando le emozioni o le situazioni richiedono di rinnovare l’intesa.

Ci piace camminare e ci piace farlo in compagnia (“in cordata”, si direbbe in alta quota e nei passaggi più rischiosi!), senza nulla togliere alla intensità dei tratti di cammino in solitaria, a poche decine di metri dagli altri. Ci scambiamo delle chiacchiere mentre le gambe vanno da sole; indichiamo l’uno all’altra le meraviglie apparse all’improvviso; ci confrontiamo sui passaggi più sicuri quando il sentiero è scosceso; quando arriviamo e ci sdraiamo, magari ci confidiamo anche la fatiche, le paure… e la fame!

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MI PASSI IL SALE?
Desiderio di ogni cammino è di giungere ad una meta. Spesso è una sorgente o un rifugio, dove dissetarsi, rifocillarsi, riposarsi… e magari ripartire. In non pochi casi, i passi degli uomini e delle donne sono con-venuti attorno ad una tavola imbandita: mercati, sagre, matrimoni, culti, persino funerali hanno avuto come momento importante il pasto consumato insieme. A tavola si scoprono tante cose di una persona o di un gruppo sociale: gusti, possibilità economiche, capacità culinarie, racconti, finezze e trivialità, tra le quali spicca lo stile dell’accoglienza dell’ospite.

Senza nulla togliere alle necessità di ciascuno, crediamo ancora che le persone che si vogliono bene riescano a condividere attorno alla mensa lo stesso luogo, lo stesso tempo… e le stesse pietanze! E si nutrono delle parole, dei gesti semplici, degli sguardi a bocca piena.

Per questo, una parte considerevole della nostra proposta si è costruita mangiando qualcosa insieme e ripropone alle coppie lo stesso stile familiare.

SAI COSA CI È SUCCESSO?

Ogni secondo di una vita accade e non riusciamo a narrarli tutti… ed è bene che sia così: la vita va anzitutto vissuta e non primariamente narrata o fotografata o filmata. E’ pur vero che quando ci si ritrova tra persone care si raccontano delle vicende liete o tristi. Forse non sempre ci si rende conto che – facendo così – raccontiamo di noi (anche quando apparentemente non siamo in oggetto), ci raccontiamo: il tono, le espressioni non verbali, il vocabolario usato, l’interpretazione… svelano non solo ciò che vogliamo presentare, ma anche noi che lo esponiamo. E tutto si amplifica quando ad interagire in questa narrazione sono due (una coppia) o più persone (una famiglia), tra loro diverse (sesso, età, prospettiva, intenzione).

L’amore viene narrato, l’amore di coppia e l’amore di Gesù. Il suo – come il nostro – va anzitutto fatto, agito… ma fa parte di questa “azione d’amore” anche riconoscerlo, apprezzarlo, portarlo al livello del linguaggio, scambiarlo, diffonderlo, fecondarlo. Senza sentirci “maestri”, senza essere logorroici, senza cadere nel pettegolezzo, senza enfasi. Semplicemente.